Gioni è una ragazzina di tredici anni, felice, solare, oltremodo empatica, che vive nel mondo edulcorato e scintillante dei meravigliosi anni Cinquanta, dentro la cornice del telefilm Happy Days. Ma è la realtà o è un sogno? La sua realtà è un futuro distopico in cui non le rimane che il sogno, l’immaginazione. E nell’immaginazione Gioni progetta, si entusiasma, balla, ride, urla, racconta, ritratta, ribadisce, minaccia, sbaraglia. Silvio Laviano la interpreta attraverso la lingua personalissima, corrotta e traboccante di ironia, inventata dalla penna di Rosario Palazzolo.
Così andrà in scena Eppideis, produzione del Teatro Stabile di Catania, in programma in Sala Futura il 15, 16 e 17 novembre 2021, debutto siciliano prima delle tournée già in programma a Genova e Milano a fine mese.
«Una produzione – commenta la direttrice Laura Sicignano – che per noi si pone nell’ambito del progetto di valorizzazione della nuova drammaturgia siciliana, tra i principali percorsi di rinnovamento artistico che abbiamo perseguito in questi anni: Rosario Palazzolo è, infatti, uno degli autori contemporanei dell’isola che produciamo già dal 2019. In questo caso il suo lavoro vede l’interpretazione del catanese Silvio Laviano, talento della città dal significativo curriculum nazionale. Eppideis è tra gli spettacoli con cui inauguriamo e rafforziamo l’identità della neonata Sala Futura, la cui Stagione Numero Zero ospita una programmazione innovativa e sorprendente».
L’immaginifico monologo di Gioni-Laviano è infatti uno spettacolo che Palazzolo stesso definisce “atipico”, «forse il più atipico dei miei spettacoli atipici», come scrive tra le note di regia: «Ciò principalmente perché offre la mia versione scritta, detta, rappresentata del fallimento inteso come fallimento della creazione artistica, intesa come realtà, intesa come l’insieme dei dispositivi narrativi che adoperiamo per restare in vita nel mentre che moriamo, e del resto Eppideis in greco antico significa Apprendimento, e l’apprendimento genera la consapevolezza, e la consapevolezza non può che determinare una fine, e sarà la fine della rappresentazione, in questo caso, e perciò mi sporgerò inesorabilmente verso un me stesso ipotetico, e contesterò l’invenzione, travalicherò la catarsi, soprattutto quella indotta o mitigata dalla comprensione piena delle cose, ché le cose, per come le sento io, sono formule esistenziali stridenti, traboccanti di poco, che provano a stabilire connessioni fragilissime e disincantate con la realtà, e con chi, nella realtà, intenda girare nella giostra del dubbio insieme al personaggio sulla scena, immedesimandosi in lui, interrogandosi sulla sua ricerca, per poi giudicarla, boicottarla, irriderla, piantarla su una croce qualsiasi, e tornarsene a casa, con quel bel tipico peso alla bocca dello stomaco. E in effetti, ciò di cui andiamo alla disperata ricerca, quello che più agogniamo, è una specie di alter ego sciagurato a cui far vivere le peggiori peripezie, col patto che ci lasci tutta la meraviglia».
Interessante è stato, per questo spettacolo, anche l’intenso percorso creativo: «La composizione del testo è stata complessa – spiega Palazzolo -, diversa da qualsiasi altra mia scrittura per modalità e per flussi creativi, e quindi è necessario che io ringrazi (e parecchio) la direzione del Teatro Stabile di Catania che ha sollecitato questa creazione, lanciandomi in avanscoperta, fornendomi il contesto ideale per svilupparla, e mi riferisco specialmente alla prima fase di lavoro, nella quale ho avuto la possibilità di confrontarmi principalmente con l’attore Silvio Laviano, e poi con la scenografa e costumista Mela Dell’Erba, l’assistente Gabriella Caltabiano, e con tutto il resto della squadra, fornendo loro alcuni parametri dell’idea, sottacendone altri, e contestandola apertamente, facendo così in modo che vi potessero entrare, e starci comodi, e anzi allargarla a loro piacimento, soppesandone gli equilibri e suggerendo nuove formule, che sono risultate abbastanza magiche».