CARLO BAVETTA: «SUONO, SCELTA DELLE NOTE E FEELING, PER ME, FANNO LA DIFFERENZA NEL JAZZ»

di Stefano Dentice

La Sicilia, da sempre, è una terra che pullula di talenti soprattutto in ambito musicale. Fra questi, un fulgido esempio è rappresentato dal giovane bassista e contrabbassista jazz Carlo Bavetta, catanese ma di stanza a Varese. Diplomato con il massimo dei voti e la lode sia al triennio di basso elettrico, con Marco Micheli, che al biennio di contrabbasso jazz, allievo di Lucio Terzano al conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano, questo jazzista classe 1997 si sta ritagliando un posto di rilievo nello scenario nazionale. Grazie alle sue qualità collabora con numerosi jazzisti blasonati in Italia e all’estero del calibro di Antonio Faraò, Enrico Pieranunzi, Dado Moroni, Gianni Cazzola, Vladimir Kostadinović, Nicola Angelucci, Pietro Tonolo, Bebo Ferra, Andrea Dulbecco, Nico Gori, Enzo Zirilli, Luigi Bonafede, Rossana Casale, Roberto Tarenzi e molti altri ancora. Esporta le sue doti anche fuori dai confini nazionali, in Paesi come Colombia, Svizzera, Georgia, Slovacchia, Romania, Turchia, Danimarca. Carlo Bavetta ha un solido timing nel comping che gli permette di swingare con naturalezza, oltre a un ottimo senso del groove. Nei “soli”, invece, si contraddistingue per la spontanea musicalità attraverso cui improvvisa con brillantezza melodica e agilità di fraseggio. Il tutto arricchito dal suo nerbo espressivo e dalla robustezza del suo suono. In questa chiacchierata racconta il suo percorso di studi, spiega la sua visione del jazz, per arrivare alle più importanti esperienze concertistiche vissute fino a questo momento della sua carriera e ai suoi appuntamenti artistici nel breve futuro.

Suoni basso e contrabbasso jazz. Hai una predilezione per uno dei due strumenti?

«Ho trascorso i miei primi anni musicali didattici e professionali suonando esclusivamente il basso elettrico, essendomi anche diplomato al triennio di jazz. Quindi lo considero come il mio primo strumento, nel senso che ho iniziato a muovere i miei primi passi nella musica proprio con il basso. Per quanto riguarda il contrabbasso, l’approccio è stato più graduale. Durante gli studi di basso elettrico jazz al triennio, presso il conservatorio di Como (“Giuseppe Verdi”, ndr), ho preso la decisione di intraprendere in parallelo lo studio del contrabbasso, sapendo che nel jazz, tra i due, appunto il contrabbasso è quello storicamente più indicato. Ho sempre avuto un approccio al basso elettrico da contrabbassista, ricercando un suono, un timing ed un linguaggio proprio dei grandi contrabbassisti jazz. Dunque, lo “switch” dall’elettrico all’acustico è stato prevalentemente un fatto di fisicità strumentale. In questo periodo prediligo senza dubbio il contrabbasso. Oltretutto, i musicisti mi ingaggiano quasi sempre come contrabbassista».

Hai effettuato un brillante percorso di studi attraverso cui hai vinto diversi premi, come ad esempio il primo posto al “Premio del Conservatorio” con il gruppo Oquk-T Collective, il premio come “Miglior Strumentista” al concorso “Un Basso in Rilievo” e due borse di studio ai seminari di Nuoro Jazz. Attualmente, invece, stai terminando gli studi classici presso il conservatorio “Giuseppe Verdi” di Como sotto la guida del M° Stefano Dall’Ora. Da jazzista, ritieni che lo studio del repertorio classico sia fondamentale anche per un musicista jazz?

«La storia del jazz ci ha dimostrato che lo studio del repertorio classico è senz’altro un grandissimo valore aggiunto per un musicista, ma non è una condizione imprescindibile. Infatti molti dei jazzisti che hanno fatto la storia di questo genere non provengono da una formazione prettamente classica, né hanno conseguito un diploma. Perchè quello che fa la differenza nel jazz, a mio parere, non è tanto la preparazione strumentale (fondamentale nel repertorio classico), ma la capacità di comunicazione nei confronti dell’ascoltatore attraverso il suono, la scelta delle note e soprattutto il feeling. Ovviamente la preparazione accademica fornisce delle basi solide dal punto di vista tecnico-strumentale, oltre al fatto che si entra a contatto con un linguaggio e un repertorio che possono solo arricchire il musicista».

Sia per la tua formazione artistica che per la tua crescita musicale, quali sono i bassisti e i contrabbassisti jazz che ti hanno maggiormente ispirato e influenzato?

«Avendo iniziato col basso elettrico verso gli 11 anni, non sono entrato subito in contatto con il mondo del jazz, ma mi ci è voluto qualche anno. Per cui, inevitabilmente, sono stato influenzato anche da bassisti non jazzisti, altrettanto fondamentali per la mia crescita musicale. Il mio primo grande amore è stato Flea, bassista dei Red Hot Chili Peppers, musicista virtuoso dello strumento e raffinato nelle scelte musicali. Parlando sempre di bassisti, questa volta in ambito jazz, sicuramente Jaco Pastorius è stato un mio riferimento. Per quanto riguarda i contrabbassisti sono molti quelli che ammiro e che mi ispirano, dai più tradizionali ai contemporanei: Ray Brown, Sam Jones, Charlie Haden, Scott LaFaro, Marc Johnson, Larry Grenadier, Christian McBride, John Patitucci. Ma se mai dovessi sceglierne uno, penso che sceglierei Paul Chambers».

Soffermandosi sul tuo stile, ti senti particolarmente legato alla tradizione jazzistica oppure volgi lo sguardo e tendi l’orecchio anche verso il jazz contemporaneo?

«Non c’è dubbio che io abbia un amore sconfinato per il jazz mainstream, come può essere il bebop o l’hard-bop. Credo che lo studio della tradizione e del suo linguaggio sia una base fondamentale per qualsiasi musicista jazz (e non è mai abbastanza). Detto questo, mi sento anche fortemente ispirato dai musicisti più moderni, soprattutto da quelli nei quali sento una fusione tra una matrice più tradizionale e la loro personalità. Alcuni esempi possono essere Brad Mehldau, Chick Corea, Kurt Rosenwinkel».

Grazie al tuo talento cristallino, nonostante la carta d’identità “verde”, hai già avuto l’opportunità di collaborare con svariati jazzisti di statura nazionale e internazionale. Più di recente suoni assiduamente con due stelle del piano jazz italiano e mondiale: Antonio Faraò ed Enrico Pieranunzi. Quali sono i segreti del “mestiere” più preziosi che hai carpito condividendo il palco con questi due nomi altisonanti del panorama jazzistico internazionale?

«Entrambi sono due musicisti di uno spessore musicale immenso, pur avendo due approcci relativamente differenti. Quello che gli accomuna, tipico dei grandi, è il “peso” che riescono a dare a ciò che suonano: ogni nota e ogni accordo hanno appunto un “peso” specifico. È come se ti avvolgessero e ti immergessero immediatamente nella musica. Da un lato questo ti agevola nel suonare, ma dall’altro bisogna mantenere altissima la concentrazione e cercare di essere sempre proprio dentro la musica, perché appena distogli un attimo il focus c’è il rischio di uscire da quel flusso magico. Quindi, ciò che sto imparando è di non risparmiarsi mai, di suonare al massimo delle proprie possibilità, mantenendo alta la concentrazione e le orecchie costantemente bene aperte».

Ad oggi, quasi ventisettenne, qual è il tuo più grande sogno artistico nel cassetto?

«In parte il sogno lo sto già vivendo. Ho la fortuna di riuscire a fare la professione esclusivamente suonando, sempre più spesso con artisti importanti, come sta accadendo con Antonio Faraò ed Enrico Pieranunzi. Un aspetto di questo lavoro che mi affascina è il viaggio. Spero di poter avere l’opportunità di viaggiare il più possibile in giro per il mondo».

Tornando invece alla realtà e alla più stretta attualità, cosa bolle in pentola nel tuo immediato futuro musicale?

«Sabato 27 gennaio partirò con Antonio Faraò e Pasquale Fiore per Istanbul, dove terremo un concerto il giorno stesso. Giovedì 1° febbraio, invece, sarò a Francavilla Fontana per l’edizione invernale del festival Francavilla è Jazz con Gianfranco Menzella, Eugenio Macchia e Pasquale Fiore. Sempre con Antonio Faraò, a metà febbraio, faremo un piccolo tour tra Francia, Svizzera e Germania per poi concluderlo al “Blue Note” di Milano il 18 febbraio. Il 25 Febbraio sarò con Enrico Pieranunzi a Piacenza, in un progetto che prevede anche la presenza di un’orchestra sinfonica. A fine maggio entreremo in studio proprio con Enrico Pieranunzi, Aldo Di Caterino e Cesare Mangiocavallo per registrare un disco, di Aldo Di Caterino Ensemble Feat. Enrico Pieranunzi, con l’etichetta Abeat Records. Insomma, gli impegni non mancano».

Foto di Roberto Cifarelli